Boschi sradicati per piantare vigne , vigne abbandonati che diventano boschi. Sono le due facce della viticoltura italiana: quella che rende e quella che soffre
Vi proponiamo un nostro articolo scritto insieme a Maurizio Gily e pubblicato sul magazine Millevigne.
Del rapporto tra vigneto e bosco si è parlato molto in questi anni, in relazione a diversi episodi e situazioni. Ad esempio, nel caso dell‘inondazione al mulino di Refrontolo nel 2013 che costò la vita a diverse persone, fu messa sotto accusa (non si sa con quanta ragione, c’è un’indagine in corso) la viticoltura del Prosecco, che avrebbe strappato versanti collinari al bosco causando il dissesto idrogeologico e le sue conseguenze.
Il bosco è accusato di favorire la flavescenza dorata fornendo rifugio al vettore dai trattamenti insetticidi (ma vedremo che non è proprio così).
Il bosco e il canneto erano, un tempo, necessari e complementari alla viticoltura a cui fornivano le principali strutture di sostegno, cioè pali e tutori. Questa funzione si è ormai esaurita, ma davvero il bosco non serve più alla viticoltura?
UN PO’ DI STORIA
Partiamo da lontano: la vite selvatica europea, antenata della vite coltivata, vive, per l’appunto, nei boschi, soprattutto vicino a corsi d’acqua. Essendo una liana non cresce in autonomia (salvo alcune rare popolazioni caucasiche striscianti di zone rocciose aride) ma si arrampica sugli alberi; cresce quindi all‘ombra ma va a fruttificare al sole, al di sopra della loro chioma, poiché, come sappiamo, la fertilità delle gemme di vite e legata alla luce.
I primi vini furono fatti da uve selvatiche; in seguito l’uomo, passando da raccoglitore nomade ad agricoltore stanziale, imitò la natura piantando (o forse seminando) le viti a fianco di grandi alberi, che fornissero appigli alla sua salita verso il cielo. Poi passò ad organizzare questa coltivazione in larghi filari, e furono le alberate. Le ultime ancora resistono in poche zone italiane, soprattutto in Emilia Romagna (la piantata) e Campania (alberate aversane e tennecchie irpine), veri musei a cielo aperto che meritano di essere tutelati come patrimonio storico.
La specializzazione e la meccanizzazione portarono alla scomparsa degli alberi nella vigna, anche se oggi qualche viticoltore biologico/biodinamico torna a proporre qualche consociazione con piante da frutto. Il bosco rimane sullo sfondo, ai margini, nelle zone peggio esposte. Tra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo, complici l’incremento demografico e l’aumento della domanda francese di vino a causa della fillossera, centinaia di migliaia di ettari in Italia furono disboscati per far posto alla viticoltura. Il Piemonte fu forse la regione più attiva in questa riconversione, se si pensa che la sola provincia di Alessandria (che all’epoca includeva anche l’attuale provincia di Asti) aveva oltre 170.000 ettari di vigneto iscritto a catasto. Oggi il Piemonte intero è a meno di 50.000. Infatti, a partire dalla crisi fiilosserica che ebbe il culmine negli anni 20-30, e con una accelerazione a partire dagli anni ‘60, molti vigneti che non davano un reddito sufficiente furono abbandonati, mentre gran parte della popolazione rurale più giovane si urbanizzava per andare a lavorare nell’industria (in Piemonte soprattutto dell‘auto). Nel corso degli anni il bosco si riprese tutto il territorio che gli era stato strappato, e oltre. Ma non era più lo stesso bosco: vi spadroneggiava la Robinia pseudoacacia (gaggìa) importata dal Nordamerica in luogo delle querce, degli olmi, dei carpini, dei castagni dei boschi originari. Nei vigneti abbandonati la vite americana dei portinnesti, resistente alle malattie fungine, ritornava allo stato di natura arrampicandosi sugli alberi. Sempre attraverso l’Atlantico sarebbe poi arrivato l’ultimo regalo, lo Scaphoideus titanus. Crediamo che basti questo scenario per concludere che, dove ancora esistono boschi originari, vadano difesi ad ogni costo.
ASPETTI ECOLOGICI DEL BOSCO EVIGNETO
L’ecologia ci dice che il bosco rappresenta una comunità matura, caratterizzata da una elevata variabilità di specie dove il bilancio tra produzione di materia e suo consumo è tendenzialmente in pari. Questa condizione rende il bosco capace di interagire con l’ambiente fisico quale sistema tampone in modo molto più efficiente rispetto ad una singola coltura agraria come Il vigneto, una comunità giovane e produttiva, ma anche biologicamente più semplice.
Secondo una suggestiva visione, il bosco sarebbe un super-organismo modificatore della geosfera ai fini della sua stessa conservazione. In sostanza la vita si afferma con prepotenza e tende inesorabilmente a moltiplicarsi, a crescere e a modificare l’ambiente per replicare questo processo all’infinito.
Il bosco e in grado di salvaguardare la fertilità dei suoli, lentamente conquistata nel tempo attraverso varie successioni ecologiche di organismi che hanno reso fertile un substrato altrimenti inerte. Nell’ecosistema forestale stabile la catena alimentare più importante è quella dei detriti, che una volta decomposti danno luogo all’humus come prodotto finale. In virtù di quanto detto è ipotizzabile definire il bosco come motore della fertilità dei suoli e in quanto tale indispensabile alla sopravvivenza futura di vigneti che, nel lungo periodo, potremmo anche immaginare inseriti in una rotazione virtuosa con i boschi contigui.
Nel breve periodo, inoltre, i boschi di molte specie di latifoglie possono essere utilizzati quali fornitori di materiale compostabile in grado di favorire la proliferazione di microrganismi e il mantenimento della fertilità nei suoli dei vigneti limitrofi, riducendo così l’utilizzo di materiali ammendanti provenienti da zone distanti.
Le legge italiana (sulla base di norme quadro europee) distingue tra bosco e arboricoltura da legno ai fini dei vincoli.